Fotocronaca

Pasolini e la guerra del Vietnam

Pasolini e la guerra del Vietnam

Silvia Martín Gutiérrez. Pasolini e la guerra del Vietnam, 15 febbraio 2022 su Città Pasolini.

Nel 1969 c’è una data storica nel corso della guerra del Vietnam. Si tratta del mercoledì 15 ottobre, momento in cui grandi folle si misero in marcia in diverse città degli Stati Uniti per manifestarsi contro in conflitto che si stava svolgendo nel paese asiatico. Migliaia di giovani americani chiesero la fine della guerra nel cosiddetto Moratorium to end the war in Vietnam. Questo atto di protesta segnò l’inizio di un nuovo movimento pacifista su base globale. Per la prima volta, nelle manifestazioni parteciparono diversi segmenti della società americana, studenti, lavoratori, minoranze, artisti ma anche intellettuali. Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, o autori e musicisti come Bob Dylan, diedero forma e voce al loro rifiuto del sistema. E quindi la guerra del Vietnam, la prima guerra in cui eminenti personalità americane si opposero alla politica del loro Paese.


Dalla fine del 1966 la guerra diventò un punto di coagulo di quelli che erano gruppi sparsi che miravano ad una radicale trasformazione della società. Troppo spesso i mezzi d’informazione diventarono inconsapevoli complici. Era facile riportare gli orrori d’una guerra moderna, molto più difficile distinguere tra ciò che era inevitabile con le armi contemporanee e ciò che era deliberata crudeltà. L’offensiva del Têt, scatenata dai nordvietnamiti e dai Viet-cong nel gennaio del 1968 aveva fatto comprendere che queste forze, anche dopo anni di guerra logorante, erano in grado di resistere e di passare al contrattacco. Inoltre, il sospetto che venissero perpetrati abusi da parte dei militari degli Stati Uniti contro i civili vietnamiti cominciava a farsi largo dentro l’opinione pubblica, anche prima che le notizie del massacro di Mỹ Lai cominciassero a diffondersi, proprio nelle ultime settimane del 1969. È così che quest’anno segna l’inizio della fine della guerra. Dopo il Moratorium fu chiaro che niente sarebbe stato più come prima. 

Ma torniamo un attimo all’anno 1966. Siamo nella fine di settembre, sta per scatenarsi il Moratorium e Pier Paolo Pasolini si trova in America, nella città di New York. Il poeta partecipa al New York Film Festival con due dei suoi film, l’opera prima Accattone (1961) e il suo ultimo progetto cinematografico, Uccellacci e uccellini (1966). Nella città newyorchese il poeta entra in contatto con diverse personalità dell’intellettualità del momento come Jonas Mekas, Allen Ginsberg o Agnès Vardà. Del primo soggiorno americano di Pasolini conosciamo ormai molte cose. Oltre l’incontro con i fotografi Richard Avedon e Duillio Pallottelli, abbiamo letto Un marxista a New York, la nota intervista fattagli da Oriana Fallaci per L’Europeo e abbiamo pure conosciuto le riflessioni pasoliniane sulla realtà americana espresse in diversi articoli su Paese sera. Un’idea, quella dell’America, che non rimarrà immutabile all’interno del corpus pasoliniano, anzi, diventerà un vettore eccezionale per capire il mutamento del pensiero dell’autore. Nel settembre 1966 era già in corso la guerra del Vietnam, visibile la protesta pacifista e palpabile la lotta contro la discriminazione razziale. Insomma la solita grande e indiscutibile America ospitava Pasolini in uno dei periodi più convulsi ma insieme più creativi della sua storia. Pasolini la capì a modo suo, con una capacità analitica unica.


Per il servizio che il pope dei fotografi di allora, Avedon, doveva fare a Pasolini per un prossimo numero di Vogue Italia, entrambi si incontrarono nello studio dell’americano sulla 61ª strada (tra Madison e Park Avenue). Il fotoreporter Duillio Pallottelli che accompagnò Pasolini a questo incontro e che firmò uno dei servizi più suggestivi con il poeta come soggetto, disse che Pasolini fu presto attirato dal ritratto mulatto che al Parlamento fu eletto due volte ma non riuscì mai ad entrarci perché è contro la guerra in Vietnam. Finito lo shooting nello studio di Avedon, Pasolini e Oriana Fallaci, che è appena arrivata mentre si svolgeva il lavoro del fotografo americano, passeggiano per le strade del Village. All’improvviso succede qualcosa, lo sguardo del poeta è subito attratto da una camicia che copia esattamente i vestiti che usano i prigionieri americani, quella che sul taschino sinistro ha la scritta Prigione di Stato, galeotto Numero 3678. Una camicia questa, che conosciamo in molti scatti che ritraggono Pasolini sul set dell’episodio La Terra vista dalla Luna, che fa parte del film collettivo Le Streghe, del 1967. Ma anche negli scatti di Elisabetta Catalano che hanno immortalato Pasolini con Laura Betti all’EUR, proprio nello stesso anno. Ma ci spostiamo di nuovo al Village, Pasolini vuole quella camicia a tutti costi ed entra nel negozio per provarsela. Ad un certo punto lui si accorge che è in corso una manifestazione a favore della Guerra del Vietnam. Diversi gruppi neofascisti portano cartelli con le scritte Bombardate Hanoi! eppure Ammazzateli tutti, quei rossi!. Improvvisamente diversi ragazzi cominciano a suonare la chitarra mentre cantano una canzone di protesta contro il conflitto. Pasolini, molto attento, guarda la scena con stupore. Per lui si tratta di qualcosa di nuovo, di eccezionale. Dirà alla Fallaci che è la cosa più bella che abbia mai visto in vita sua. Il giorno dopo, Pasolini prende l’aereo verso Fiumicino.

Una volta che è rientrato in Italia, l’autore scrive un saggio sul suo incontro con la realtà americana. Prima intitolato L’America di Pasolini, pubblicato su Paese sera in risposta alla lettera di un suo lettore, finalmente prenderà il titolo Guerra Civile, è così che lo conosciamo oggi nella raccolta Empirismo eretico (1972). La struttura generale del saggio ci presenta un parallelismo della situazione europea nei tempi della Resistenza con il presente americano del 1966, nel quale, secondo Pasolini, si vive un clima clandestino di urgenza rivoluzionaria. Per il poeta, in Europa la rivoluzione si è fermata, non è continuata, e i cosiddetti rivoluzionari sono diventati anche loro dei piccolo borghesi. È stato dunque questo mutamento a comportare la mancanza di contestazione o di protesta contro il modello consumista. Invece, la negazione della società di consumo e imperialista americana, si esprime nelle opere di questi artisti e intellettuali beatnik, figli dei fiori e della cultura hippie. Per lui, le manifestazioni non violente americane sono soltanto paragonabili ai giorni della Resistenza. A New York, Pasolini ha vissuto in prima persona molte situazioni di scontento, di esaltazione, di disperazione e di speranza che gli fanno credere ancora alla possibilità di una rivoluzione vera e propria.


Nel suo pensiero, così come afferma in Guerra Civile, nasce un ampio campo semantico, molto elastico, per il quale la rivoluzione futura dovrà comprendere sia il problema dell’emancipazione dei neri in America che quello dei piccoli, sublimi Vietcong nel Vietnam, entrambi componenti della società sono degli emarginati. Lui crede che è in America dove sta prendendo atto un movimento sociale per cui il Terzo Mondo si sta affacciando alla storia. Il problema dei neri unito a quello dei bianchi poveri e anche a quello dei Vietcong è inevitabilmente intricato, così l’autore ribadisce un problema fondamentale, già anticipato nel documentario La rabbia (1963):

Per esempio: il colonialismo. Questa anacronistica violenza di una nazione su un’altra nazione, col suo strascico di martiri e di morti. O la fame, per milioni e milioni di sottoproletari. O il razzismo. Il razzismo come cancro morale dell’uomo moderno, e che, appunto come il cancro ha infinite forme. È l’odio che nasce dal conformismo, dal culto della istituzione, della prepotenza dalla maggioranza. È l’odio per tutto ciò che è diverso, per tutto ciò che non rientra nella norma, e che quindi turba l’ordine borghese.


Dirà Pasolini, nel saggio Guerra Civile, che gli americani vogliono a tutti costi essere uguali proprio perché sono immensamente diversi per causa delle loro diverse origini povere. Di conseguenza, concluderà affermando che l’uomo medio americano è assolutamente inconcepibile e irrappresentabile. Essendo la società americana una comunità mancante di coscienza di classe, Pasolini vede nelle manifestazioni pacifiche, non violente, l’unico modo possibile in cui la società americana possa prendere coscienza della loro realtà. Soltanto passando attraverso il calvario dei neri e dei Vietcong l’americano avrà una vera coscienza di sé e della società.

Nel 1967, ad aprile, gli echi di New York continuano presenti in Pasolini. Nella sua casa di via Eufrate 9 incontra Jonas Mekas e Gideon Bachmann. Nella loro conversazione torna l’argomento della guerra del Vietnam. Il regista lituano pensa che il conflitto debba per forza cambiare la società americana, e se così non fosse, esisterebbe il rischio che tornasse un’altra esplosione simile. Inoltre, la protesta a favore dell’integrazione dei neri e contro la guerra del Vietnam, proseguono e hanno raggiunto l’opinione pubblica, nessuno può quindi fermare questo movimento. Mentre Mekas crede alla possibilità di fare una rivoluzione con le macchine da presa, Pasolini ne è scettico: Ho i miei dubbi … quante macchine da scrivere ci sono in America? Non intendo ridicolizzare la tua speranza, al contrario. Ma sto cercando di scoprire perché trovi il cinema una strada migliore per la liberazione rispetto alla letteratura? Pasolini crede che nel momento in cui gli americani avranno un’ideologia, si scatenerà una guerra civile, un conflitto che potrebbe essere la salvezza del mondo.

Nell’ottobre 1967 Allen Ginsberg è in Italia, a Milano. Pasolini incontra l’intellettuale americano nella lussuosa casa che Nanda Vigo aveva sistemato per Spaggiari. Pasolini e Ginsberg ebbero bisogno di un traduttore, in una panchina di pietra e durante un paio di ore Pivano fece da traduttrice e si accorse della nascita di una bellissima amicizia che stava nascendo tra i due scrittori. Quello che Pasolini ammirava di Ginsberg era la sua rivolta contro i padri borghesi, così lo scriverà nella nota lettera indirizzata all’americano. Secondo Pasolini, Ginsberg faceva la rivolta contro i borghesi restando dentro il loro stesso mondo classista e quindi, era costretto ad inventare di nuovo e completamente il suo linguaggio rivoluzionario. Mentre in Italia, il linguaggio rivoluzionario era già pronto dentro della sua morale, un linguaggio che era stato fornito dal marxismo e la cui unica vena poetica era il ricordo della Resistenza, rinnovato solo al pensiero del Vietnam. 


Come vediamo Pasolini si sente completamente distaccato dal mondo della cultura in cui vive, perciò si sente innamorato della cultura americana, per le tante novità che gli offre. Poter essere un letterato non integrato a chi soltanto gli si richiede essere se stesso è qualcosa che ammira della società americana nei confronti dei loro intellettuali. L’anno seguente all’incontro con Ginsberg, nel giugno 1968, viene pubblicato il celebre poema pasoliniano, Il Pci ai giovani!, nel numero 24 di L’Espresso. Un componimento che rimanda al suo analisi della società americana sviluppato negli anni anteriori:

Ecco,

gli Americani, vostri odorabili coetanei,

coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,

loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!

Se lo inventano giorno per giorno!

Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:

potreste ignorarlo? […]

Oh Dio! che debba prendere in considerazione

l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile

accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?.


Questa poesia è contemporanea alla premessa Un Vietcong onorario, scritta da Pasolini in ricordo dell’assassinio di Robert Kennedy e pubblicata da Trappani nel mese di settembre, riprende i punti fondamentali della sua analisi della realtà americana. Interpretata da Trincale, questa ballata fu censurata dalla RAI. La trasmissione televisiva, già registrata dalla da quasi un anno, non venne messa in onda per opportuni motivi sociali.

e piange l’altra America

dei negri e dei poveri

per Martin Luter King

e per il senatore

da suo fratello Kennedy aveva ereditato

di dare miglior vita al negro maltrattato

la pace tra i popoli,come papa giovanni

niente più guerra infame, lassù nel Vietnam.

Anche nel ottobre 1967, Pasolini scrisse Jean-Luc Godard, entrambi registi lavoreranno nel progetto collettivo Vangelo 70poi intitolato Amore e rabbia, due anni dopo. Nelle parole che il poeta italiano dedica al regista francese esalta il film godardiano La Chinoise. Ricordiamo che facendo un uso costante di metafore visive, Godard aveva affrontato alcuni degli elementi caratteristici della discussione della sinistra degli anni Sessanta, come l’intervento americano in Vietnam. Dobbiamo sottolineare che quando Pasolini gira l’episodio pasoliniano La sequenza del fiore di carta nel film Vangelo 70,giustappone immagini della guerra del Vietnam all’immagine di Ninetto che passeggia inconsapevole della realtà che lo circonda su Via Nazionale. Vi sono momenti della storia in cui non si può essere inconsapevoli – affermerà Pasolini – bisogna essere consapevoli, e non esserlo equivale a essere colpevoli.

Un momento importante nella guerra del Vietnam, in questo contesto, fu il passaggio dall’immagine di un intervento brutale contro un popolo in lotta per l’indipendenza nazionale a quella del popolo di contadini che stava mettendo in scacco la più grande superpotenza mondiale. Del resto, quella era la prospettiva dei nord-vietnamiti che presentavano la guerra come una lotta contro un’invasione straniera, raramente mettendo l’accento sul comunismo. 

Il 29 novembre del 1967 una grande marcia per il Vietnam percorre Roma. È la marcia della pace in cui due colonne partite da Milano e Napoli nei primi giorni del mese avevano raggiunto la capitale. Circa un migliaio di persone, per lo più studenti universitari e giovani operai alla testa dei quali erano Danilo Dolci ed il pittore Ernesto Treccani. In corteo raggiunsero Montecitorio e i manifestanti chiesero che l’Italia pendesse il suo posto accanto a tutti coloro – popoli e governi – che condannavano sempre più decisamente l’attuale nefasta politica statunitense nel Vietnam. Tra i manifestanti c’era Pier Paolo Pasolini. Il servizio finora inedito del fotoreporter Marcello Geppetti, custodito presso la Marcello Geppetti Media Company a Roma, ha due scatti in cui vediamo il poeta fra i manifestanti. Porta un giubbotto di pelle che conosciamo bene attraverso le fotografie di Angelo Novi nel set di Teorema, anche le scarpe e pantaloni sono quelli che osserviamo nelle fotografie fattegli da Pallottelli nel soggiorno newyorchese. In uno degli scatti di Geppetti, dietro a Pasolini vediamo la bandiera degli stati Uniti con una scritta in cui si legge Viva la resistenza dell’altra America. In questo momento il movimento conobbe una svolta significativa annunciata già da alcuni fatti avvenuti in precedenza. In Italia il movimento contro il Vietnam fuoriuscì, in molte sue manifestazioni, in maniera marcata dal controllo e dalla linea del Pci, tanto più da un profilo di opposizione moderata e ispirata a principi di moralità e umanitarismo. 

Il mese dopo, cioè a dicembre, la giornalista di La Stampa, Liliana Madeo, si reca nella casa di Pasolini all’EUR per intervistarlo. Entrambi parlano del cinema dell’autore, del teatro italiano e dei suo nuovi progetti in cui dovrà rappresentare i drammi teatrali che ha elaborato, ma anche della Tv. Pasolini afferma nell’intervista che questo mezzo non può dare un contributo al rinnovamento dello spettacolo in Italia. Ad un certo punto, lui dirà che la Tv è peggio della guerra del Vietnam: perché il suo paternalismo, la falsa democrazia, il moralismo vuole considerare tutti gli spettatori come piccolo-borghesi. Sebbene nella lunga intervista questo dibattito sulla Tv rappresenta soltanto un paragrafo, Madeo sceglie come titolo Pasolini: La TV è peggio della guerra in Vietnam e le conseguenze non tardano a manifestarsi.

Pasolini, pronto a prendere un’aereo per Bombay, poiché si accingeva a girare un breve documentario per Tv7 sotto forma di sopralluogo per un film da girarsi in India, dopo l’uscita dell’articolo della Madeo, vede rimandare il suo progetto. Scrive una lettera al direttore del giornale in cui si lamenta della mancanza di professionalità della giornalista e difende il suo progetto come il solo modo di portare la cultura nel mezzo televisivo. Riprendendo argomenti marcusiani conclude che la collaborazione di un uomo di cultura con la televisione così com’è, è effettivamente impossibile. Inoltre, lo sloganLa televisione è peggio del Vietnam assume una valenza retorica, che sta tra la boutade e la sineddoche. La guerra del Vietnam si riafferma come categoria metalinguistica negli scritti pasoliniani.

Nell’6 agosto 1968 Pasolini iniziò la collaborazione al settimanale Tempo, all’epoca diretto da Nicola Cattedra. La testata era allora un diffuso periodico di massa, privo di un preciso orientamento politico-ideologico, e tuttavia disponibile ad affidare uno spazio fisso, contrattualmente definito, a un’intellettuale come Pasolini. Nel numero 43 del settimanale, quello del 19 ottobre, il poeta dedica alcune riflessioni al conflitto che si sta ancora svolgendo nel Vietnam. Lui si è accorto che all’improvviso la parola Vietnam è scomparsa dai titoli dei giornali. L’ostentazione con cui faceva notizia ha lasciato il posto a una distratta routine prima, e a una sospensione poi. Pasolini afferma anche di non averla usata più di tre volte, per lui Vietnam è una parola che nella maggior parte dei casi è stata usata demagogicamente, al fine di strumentalizzarla e di farla diventare vuota. Se finora l’approccio dell’autore al conflitto nel Vietnam si era svolto in modo antropologico, portandolo al centro del suo pensiero culturale, qui, entra nel vivo nel dibattito:

Per rabbioso pudore mi son sempre trattenuto dal nominare invano il Vietnam: come nei Comandamenti si dice (invano) di fare con Dio. Ma ora c’è un momento di pausa (ah, certamente non definitivo nella moda, atroce, del Vietnam; ora che i Vietcong, sia pure in una breve mora, sembrano lontani e “separati” (è più funzionale parlare degli studenti messicani, ora), voglio dire tutto il mio amore per quella piccola e sublime gente. Mentre in Europa c’è il fascismo nelle sue varie forme, salvo che in Inghilterra): laggiù, nel Vietnam, si combatte una guerra di retroguardia: cioè si combatte prima di tutto per quelle cose minime ed elementari che sono la libertà e l’indipendenza. Non voglio dare con questo una lezione a nessuno. Non voglio essere a mia volta ricattatore. Voglio solo invitare a essere realisti. E dico questo soprattutto agli uomini della mia età: a cui è capitato in sorte, come a me, di dover “adempirsi” in un’epoca diversa da quella in cui la loro vita è cominciata.

No, per loro (i Vietcong) è sempre la vecchia epoca, devono combattere per le loro vecchie battaglie. Appunto perché essi sono ancora al mondo, molte delle ragioni che hanno condizionato la loro epoca sono ancora reali. La loro ambiguità si è dunque ulteriormente aggravata: fino, certo, a farsi drammatica, o addirittura tragica. Non possono, infatti, non sapere e non vedere che è nata un’epoca nuova: ma essi non possono che “adempiersi” nella vecchia. Non è una questione di generazioni.

Anche se i ragazzi delle università gridano Ho Chi Minh, i Vietcong, contadini ed “eroi”, appartengono alla vecchia epoca. Ho messo tra virgolette la parola “eroi”, perché, come mi ha raccontato Basaglia, nel suo manicomio, una ricoverata ha detto che gli eroi sono prodotto delle società repressive.

Torna così l’idea pasoliniana dell’esistenza di una nuova preistoria. Così come i sottoproletari delle sue prime opere vivevano ancora nell’antica preistoria, i contadini “eroi” Vietcong appartengono alla vecchia epoca. Mentre che il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico va verso una nuova preistoria, i Vietcong non possono accorgersi che è nata: un’epoca nuova. Non hanno nessuna alternativa sennò che “adempiersi” nella vecchia. Il riferimento allo psichiatra Basaglia rimanda allo stesso tempo al Eros e Civiltà di Marcuse. La civiltà, produttiva e finalizzata ad un progresso basato su una comunità efficiente, reprime necessariamente gli istinti umani. Questa repressione genera uno stato di nevrosi e di disagio psichico nell’essere umano.

Nel 1969 il presidente Nixon iniziò a pensare a una strategia per uscire dalla guerra del Vietnam però senza che gli Stati Uniti potessero pensare a una sconfitta americana. Proprio questo stesso anno Pasolini torna a New York, ma la sua visione dell’America è assolutamente cambiata. In diversi articoli scritti per la rubrica Il caos nel settimanale Tempopossiamo immergerci nella sua inesorabile delusione:

Dov’è scomparso Ginsberg? E Bob Dylan? È solo questione di una moda passata? E dove sono scomparsi i cortei di pacifisti e i ragazzi che cantano sulla chitarra, come se questo accadesse per la prima volta nel mondo, canzoni contro la guerra? Dov’è la tragedia spettacolare, vissuta pubblicamente e perciò trascinante, vitale, esaltante? Tutto è cessato: ne è rimasto il folclore come la stupenda squama di un serpente sgusciato via, sottoterra, underground, a lasciare capelloni spenti, piccoli gangster, folle di disperati a popolare l’America di Nixon.

Questa rassegnazione all’ineluttabilità del neocapitalismo è anche la linea guida della raccolta Trasumanar e organizzar (1971), con testi scritti da Pasolini fra il 1968-1970. Molte delle poesie che conformano questo suo nuovo volume erano già conosciute dai suoi lettori, perché le avevano lette su riviste, talvolta anche su rotocalchi, come avvenne per Il Pci ai giovani!. Con Trasumanar Pasolini non crede più alla rivoluzione anche se senta che debba far parte di quelli che si battono per essa:

È già un’illusione scrivere poesia, eppure continuo a scriverne, pure se la poesia non è più per me quel meraviglioso mito classico che ha esaltato la mia adolescenza… Non credo più nella dialettica e nella contraddizione, ma alle pure opposizioni… Tuttavia sono sempre più affascinato da quell’alleanza esemplare che si compie nei grandi santi, come san Paolo, tra vita attiva e vita contemplativa.

Prima della fine della guerra del Vietnam, Pasolini si scaglia contro il direttore del Corriere della sera Piero Ottone, per i servizi pubblicati nel giornale sul conflitto. Secondo il poeta dovrebbe vergognarsi per quello che fanno i redattori sul Vietnam, tra i quali Indro Montanelli, Giovanni Spadolini e Giulia Maria Crespi. Dopo una furibonda accusa, concludeva con uno dei suo vaticini: Quelli che oggi sono gli sfruttati e gli oppressi spazzeranno via voi e le vostre libertà. Costoro sanno oggi meglio che mai che questa non è retorica millenaristica.

Bibliografia:

  1. Pasolini, Pier Paolo. Voi, diffusori dell’inganno. Lettera al direttore, in Il Corriere della sera, 30 aprile 1972, p.35.
  2. Pasolini, Pier Paolo. Lettere al direttore. Pasolini e la televisione, in La Stampa, 12 martedì dicembre 1967, p.3.
  3. Pasolini, Pier Paolo. Lettera ad Allen Ginsberg in Lettere (1955-1975), a cura di Nico Naldini, Torino: Einaudi, 1988, pp. 631-632.
  4. Pasolini, Pier Paolo. Lettera a Jean-Luc Godard in Lettere (1955-1975), a cura di Nico Naldini, Torino: Einaudi, 1988, pp. 629-630.
  5. Pasolini, Pier Paolo. La rabbia del poetaVie Nuove n.38 del 20 settembre 1962, ora in Le belle bandiere, a cura di Gian Carlo Ferretti, Editori Riuniti, Roma, 1997, p.223.
  6. Pasolini, Pier Paolo. L’enigma di Pio XII, in Nuovi Argomenti, luglio 1968, ora in Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti, 1971, p.22.
  7. Pasolini, Pier Paolo. Incontro col Living, in Il Caos sul settimanale Tempo n.16 19 aprile 1969.
  8. Pasolini, Pier Paolo. Il Vietnam è passato di moda?Le false battaglie e Tragica ambiguità, in Il Caos sul settimanale Tempo, n.43 19 ottobre 1968, p.30.
  9. Pasolini, Pier Paolo. Guerra Civile, 1966, in Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, p.144.
  10. Pasolini, Pier Paolo. Anche Marcuse adulatore? in Nuovi Argomenti n.10 aprile-giugno 1968, ora in Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, p.252.
  11. Mekas, Jonas. Conversazione con Pasolini, 1967, in Scrapbook of the sixties”: writings 1954-2010. Leipzig : Spector Books, 2015, pp.157-164. 
  12. Martín Gutiérrez, Silvia. I due viaggi a New York, 1966-1969 in Pier Paolo Pasolini. Sotto gli occhi del mondo, Roma, Contrasto, 2022, pp.158-183
  13. Madeo, Liliana. Pasolini: La TV è peggio della guerra in Vietnam, in La Stampa Sera, 6 Dicembre 1967 
  14. Fallaci, Oriana . Un marxista a New York, in L’Europeo n. 42, 13 ottobre 1966, ora in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Milano, I Meridiani Mondadori, 1999, p. 1597.

18 Febbraio 2023

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