Il mio Carrello
Il carrello è vuoto!
Era la notte del 21 giugno 1959. Roma era quella della Dolce Vita. Via Veneto era piena di star internazionali, mentre gli italiani celebravano l’entusiasmo scaturito dal boom economico con le note di “Volare”.
Marcello Geppetti era un giovane fotografo di quasi 26 anni. In quegli anni l’arte della fotografia si esprimeva anche attraverso gli scatti della Roma hollywoodiana: nascevano i primi paparazzi, forti del fatto che alcuni scatti “paparazzati”, valevano milioni e milioni.
In un mondo che si preparava a mettere l’immagine al centro della propria comunicazione, il mestiere del fotografo diventava centrale nelle nuove dinamiche sociali. I media erano costantemente alla ricerca di foto con le quali sfamare un pubblico desideroso di vedere, oltre che di leggere.
In quella notte romana, Marcello Geppetti fece degli scatti che lo catapultarono al centro di un dibattito pubblico spietato, avido di costruire degli stereotipi da demonizzare.
Come ha raccontato Geppetti in varie interviste, quella notte si trovava nei pressi di Via Veneto alla ricerca di personaggi famosi. Passando vicino al “Pipistrello”, un frequentato night-club dell’epoca, notò la macchina di Soraya, ex moglie dello Scià di Persia, parcheggiata davanti al portone di casa del principe Raimondo Orsini.
La speranza di poter fotografare l’ex imperatrice, nel momento in cui sarebbe uscita dall’abitazione del principe, spinse Geppetti ad appostarsi ad un angolo lì vicino per attenderla. Erano più o meno le quattro della notte, quando delle fortissime urla arrivarono alle orecchie del fotografo romano, che allarmato dalle richieste di aiuto, entrò nel “Pipistrello” per chiamare immediatamente dei soccorsi.
Quelle forti grida che strillavano “chiamate i pompieri” provenivano dall’Hotel Ambasciatori, dove il quinto piano stava andando in fiamme. Geppetti, accompagnato da due guardie della sicurezza che perlustravano le strade della “movida” romana e da altre persone, corse fuori l’hotel.
Provarono a sfondare il portone per entrare, ma non ci riuscirono. Le fiamme, però, divampavano e per alcune persone che si trovavano al quinto piano diventava impossibile mantenere la calma. Così, ci fu una prima donna che si lasciò cadere giù dal davanzale. In quel momento, quando era evidente che nulla, fuorché i pompieri, avrebbe potuto evitare quella disgrazia, Marcello Geppetti riprese la macchina fotografica che nel caos di qualche istante prima aveva poggiato a terra e scattò delle foto.
Dodici scatti, non di più. Ogni scatto era qualcosa che sarebbe rimasto impresso nella mente di Geppetti per anni, sepolto nei suoi incubi delle notti più agitate. Non ebbe il coraggio di cambiare rullino e fare altre foto. Anche per un professionista del suo calibro erano degli scatti dal differente peso specifico.
Nonostante questa accorta sensibilità, nonostante la collaborazione con gli altri passanti per cercare di limitare il disastro, il giorno successivo Marcello Geppetti veniva descritto come un “mostro”, un uomo cinico e disumano che per qualche milione aveva scattato delle foto indegne, irrispettose nei confronti degli individui e irriverenti verso la morte.
Ma chi ama la fotografia conosce il valore di quegli scatti, che non è un valore solo economico. Certo di questo avviso, per diverse ragioni culturali, non poteva essere l’Osservatore Romano, l’organo di stampa ufficiale del Vaticano, che invocò, addirittura, la scomunica per Geppetti.
La spietata bellezza di quegli scatti che ritraevano quelle povere vite in bilico fu coperta di odio nei confronti del suo autore dalla stampa bigotta e censoria.
Quando Geppetti ebbe modo di rispondere alle accuse attraverso una breve intervista, spiegò immediatamente: “Ho fotografato come un automa. Solo il giorno dopo ho capito che le mie fotografie valevano milioni”.
Geppetti si trovava lì per caso. Quando aveva constatato che in nessun modo avrebbe potuto intervenire per sventare la disgrazia, allora ha scattato delle foto. “Non è vero che sarei passato sopra a qualsiasi sentimento per avidità di danaro”, ha ribadito Geppetti.
“Succede ad ogni persona che fa il fotografo professionista: altrimenti non esisterebbero tante fotografie di avvenimenti drammatici, o di guerra”. Ed è proprio questo forte senso deontologico, questo sincero attaccamento all’etica professionale che avrebbe dovuto assolvere Geppetti da qualsiasi accusa.
Quelle tragiche foto dell’incendio all’Hotel Ambasciatori non erano scattate da un paparazzo arrivista ma da un fotoreporter, che non rincorreva la “notizia” ma le emozioni, anche, come in questo caso, negative. Forse, memore anche di queste accuse, Geppetti decise di iniziare anni dopo una battaglia volta al riconoscimento dei fotoreporter come giornalisti.
Un senso etico dev’essere sempre alla base dell’azione in ogni ambito lavorativo. Nella notte del 21 giugno Geppetti quel senso etico l’ha seguito; è l’Osservatore Romano che, non capendo l’importanza di quegli scatti, ha preferito demonizzarli insieme al suo autore.
Con le dovute proporzioni, la gogna mediatica che ha travolto Geppetti è la stessa che oltre cinquant’anni dopo ha fagocitato Nilüfer Demir, la giornalista “colpevole” di aver scattato una foto del piccolo corpo senza vita di Alan Kurdi, il bambino siriano trovato morto su una spiaggia turca in seguito al naufragio di un gommone che trasportava migranti.
In questo caso, come in quello dell’Hotel Ambasciatori, una foto è valsa più di mille parole. Lo stesso Geppetti anni dopo disse che, non potendo salvare le donne al quinto piano, voleva “documentare almeno quella sporca situazione, l’inefficienza generale” che vide i pompieri arrivare tardi e senza le giuste attrezzature per limitare la tragedia.
Il compito del fotoreporter è ritrarre la realtà, per quanto, alle volte, possa apparire macabra e dolorosa. Per Geppetti questo è sempre stato chiaro e lo ha ribadito in diverse interviste: bisogna fotografare, poi sta al direttore del giornale scegliere se pubblicare o meno determinati scatti.
26 Aprile 2021